
L’incontro con una cassa piena di vecchie foto, in un negozietto di antiquariato nei quartieri spagnoli napoletani, ha aperto nuovi scenari di ricerca. ll viaggio a Napoli avvenuto nel luglio 2021, in compagnia di Hugo Ciappi e Pasquale 16116 Armenante -artisti che mi hanno suggerito un diverso sguardo sul fare pittorico- mi ha avvicinato alla pratica del collezionismo. Acquistai sedici foto, solo sedici fra centinaia, e passai i giorni successivi ad osservarle insieme ad alcune annotazioni che erano apportate sul retro: capii che avevo inconsciamente applicato un filtro di selezione personale ben preciso, (d’altronde, come avrebbe fatto chiunque altro si fosse trovato a dover scegliere fra molteplici immagini) e che, avevo inconsciamente creato fra queste una serie di rimandi e collegamenti. Foto appartenenti al secolo scorso, che avevano viaggiato nel tempo e nello spazio: nonostante notassi una sostanziale differenza di pose, usi e costumi le sentii come vicinissime a noi, o forse in grado di ricordarci valori e frangenti di vita che, nel nostro secolo, stanno subendo sostanziali trasformazioni. Al mio rientro chiesi aiuto ai miei familiari, alle mie nonne in particolare, per visionare altro materiale affine: un salto di tre, quattro generazioni indietro. Ho conservato alcune foto e ricordi di famiglia, senza dare troppo rilievo al legame affettivo: il progetto non avrebbe dovuto ricreare l’effetto album dei ricordi, quanto piuttosto concentrarsi sulle varie particolarità dei singoli scatti. La ricerca, ancora in corso, si è arricchita nel corso dei mesi anche fra bancarelle di fiere paesane.


La collezione di questi ritrovamenti si configura, prima di tutto, come un modo di raccogliere e tenere insieme forme e logiche diverse, un’eterogeneità dentro una presunta omogeneità che, attraverso un filtro del tutto individuale misto ad intuito e razionalità, ricerca nuove possibilità, nuovi scenari. Volendo indagare alcune tipologie di connessioni del primo nucleo di foto in mio possesso ho cominciato a tappezzare il muro del mio studio, ora affiancando, ora sovrapponendo, i reperti. Così prende il via Paralipomeni del pane e delle rose, un lavoro fatto di stratificazioni e sedimentazioni, per costituzione sempre aperto e pronto ad accogliere nuovi ritrovamenti, nonché a mettere in discussione alcuni dei suoi nodi tematici. Entriamo ora, nel vivo della titolazione, rilevante per la comprensione del lavoro.
Paralipomeni. Cose tralasciate, omesse: un’integrazione o conferma di fatti, di vicende, appartenenti a tempi e luoghi diversi. Per estensione, il termine rimanda a un’opera o scritto che sia la continuazione o il completamento di altre opere o scritti.
Del pane e delle rose. Il termine, preso in prestito dallo sciopero storico dei lavoratori dell’industria tessile, svoltosi nel 1912 a Lawrence (USA), è un tentativo di comunicare pari dignità al pane, ovvero ai bisogni primari, alla quotidianità, e alle rose, portatrici simboliche di quello che spesso viene relegato al superfluo, ossia la cultura e l’arte.
Forse, più che “del pane e delle rose” direi “Il pane con dentro le rose”, espressione che intende rimandare a un modo di sentire e vivere la vita, un modo di interpretare l’economia dell’esistenza di ognuno di noi. Cosa succede se la vita è solo pane? Cosa succede se la vita è solo rose? Un’esistenza che non prevede i due elementi convivere in equilibrio osmotico è presagio di un’esistenza infelice? Possiamo assumere Il pane e le rose, nel loro essere citazione in chiave simbolica, come aspirazione al raggiungimento del benessere individuale e conseguentemente come riverbero di benessere collettivo? Questi solo alcuni degli interrogativi che hanno accompagnato la genesi del lavoro. Un'installazione fatta di narrazioni aperte e condivisibili: un’individualità che cerca punti di contatto con la collettività, cercando di instillare stimoli più vari in fase di fruizione, di sollecitare lo sguardo per alimentare nuove prospettive e riflettere intorno a concetti quali il benessere dell’individuo o la qualità della vita. Quali sono le cose che ci riguardano quotidianamente e che contano davvero per noi?


La volontà del progetto, dunque, non è quella di essere scambiato per un mero archivio di memorie, dal valore puramente affettivo o documentativo, ma quello di pensare a nuovi modi di tenere insieme le cose, di cercare nessi imprevisti dando spazio all’inconscio, che occupa un ruolo decisivo nella formazione e nell’espressione di senso. Tutti risentono della stessa volontà di disporre diversamente le cose, di inventare nuovi modi in cui metterle insieme, di percorrere la storia non seguendo la cronologia, di creare accostamenti produttivi, di cercare percorsi che sanno di universale senza rinunciare al coinvolgimento personale, di rimettere in gioco ciò che restava escluso, accantonato, dimenticato. Le foto ritrovate, che compongono l’installazione, non sono quasi mai separabili dall’insieme, non hanno autonomia, ma sono invece integrate nella struttura dei nodi, nuclei tematici sottesi che si intrecciano e si sovrappongono creando un unico ambiente, un terreno comune.
Ma se questa logica orizzontale, questa modalità di ragionamento ipertestuale, rizomatica, questo zapping tra varie specificità, fosse un punto di partenza per logiche diverse e comportamenti nuovi?
Paralipomeni del pane e delle rose, declinato sia nel senso stretto della pratica collezionistica e installativa, sia nella ricerca visiva in ambito pittorico, rimane un progetto aperto, un nucleo neonato che mira ad abbracciare al suo interno numerose tematiche. Prima fra tutte, quella del culto della trasfigurazione e del gioco delle somiglianze, che interroga le cose e la loro possibilità di trasformazione, non tanto nel senso di un’interpretazione del mondo esistente, ma piuttosto quello di una sua messa alla prova, di una sua verifica di esistenza e interpretabilità. Un altro esempio è la ricerca sul senso della documentazione e dell’iconografia oggi: da un lato c’è il diventare tutto immagine, per cui l’iconografia cerca la ricorrenza delle stesse immagini o di dettagli come segno indicativo al di là del suo contenuto manifesto; dall’altro c’è il viaggiare -ma oggi si dirà anche navigare- tra le immagini alla ricerca di storie e metafore. Forse non si tratta propriamente di iconografia, ma di un approccio che cerca la ricorrenza di temi, che induce al confronto e alla stimolazione del pensiero divergente. Collezionare, di fatto, è già un fare attivo, un selezionare, un cercare il proprio percorso, la propria posizione. Perseguire il lato personale dell’appropriazione per intrecciarlo a ciò che è pubblicamente condiviso: l’interazione tra sfera privata e sfera pubblica. Se volessimo fare un parallelismo con la sintassi, ci renderemmo conto che il percorso di accostamenti, incastri, salti, sovrapposizioni non è più identificabile con una frase, con un discorso lineare. Come ci ricorda Elio Grazioli ne La collezione come forma d’arte (Grazioli #), questa modalità di fruire i contenuti si avvicina alla nostra modalità di percezione e conoscenza del mondo stesso, quello urbano in particolare, fatto di ritmi serrati, di stimoli diversi, interrotti e incastonati l’uno nell’altro, di diversioni e distorsioni. La nostra stessa mente lavora in questo modo, raccogliendo come arrivano di mano in mano gli stimoli, le immagini, i suoni, le idee, gli odori, che ci giungono in sequenze complesse e casuali, veloci e da tutte le direzioni, e che selezioniamo e montiamo per associazioni e automatismi. Niente più lentezza e linearità, omogeneità e continuità del panorama naturale: ora è la grande città l’ambiente della vita contemporanea. E con essa la tecnologia e il web.
L’intuizione di tale lavoro non è certamente inedita, ma aderisce a un filone creativo che ha preso sempre più campo durante il secolo scorso. La forma del collezionare è entrata da tempo a far parte delle modalità del fare arte: gli artisti raccolgono ed espongono collezioni quali opere proprie.






